La Giornata Mondiale dell’Alimentazione si è celebrata il 16 ottobre con il motto “Coltivare, nutrire, preservare. Insieme. Le nostre azioni sono il futuro”. E’ stata per Eureka un momento di riflessione. Ci ha portato a ripensare le esperienze fin qui vissute per accorgerci che in quasi trent’anni di vita della Cooperativa il tema della nutrizione ha sempre accompagnato i nostri progetti e attività pedagogiche e, a volte, ne è stato il cuore. Dalle cucine a regime bio, interne agli asili, a progetti come “Pappa e nido” che ci danno la soddisfazione di aver trasformato un’idea in una pratica stabile di qualità. Perché coltivare, nutrire, preservare sono azioni rivolte alla terra e ai suoi frutti ma rappresentano anche imperativi alla base di una buona crescita degli individui. Farlo insieme è il nostro stile. Insieme con adulti e bambini, con le istituzioni pubbliche, con le Università, con gli attori del Terzo settore con cui condividiamo scopi e metodi.
Non è un caso allora l’Agriasilo. Non è un caso che si chiami Tra bosco e fiume. E’ stato inaugurato quest’anno in Cascina Cappuccina, con la Cooperativa Praticare il Futuro. Un’offerta nuova e, al contempo, consolidata grazie alle competenze di educatori appassionati, esperti di educativa in natura. Gli animali, gli spazi all’aperto e gli orti coltivati della nostra Cascina diventano ogni giorno il terreno di apprendimento per tanti bambini dai tre ai sei anni. Come già lo sono le attività con gli asini, fin dall’inizio di quest’avventura nel Parco Sud di Milano, avviata nel 2012 e rivolte a grandi e piccoli. Perché sì, le nostre azioni sono il Futuro. E il nostro futuro è progettare sempre, accogliere ora.
Irritabile, capriccioso, svogliato, ma più affettuoso con genitori e fratelli. È quanto emerge dai primi risultati di un’indagine regionale sulla vita di bambini e genitori durante il lockdown.
L’indagine “Bambini e lockdown, la parola ai genitori” è stata condotta dalla Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche (SICuPP Lombardia- Marina Picca, Presidente e coordinatrice scientifica del progetto per i pediatri) con la collaborazione di un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca (Paolo Ferri e Chiara Bove docenti del Dipartimento di Scienze umane per la formazione) e della spin off dell’Università di Milano-Bicocca “Bambini Bicocca” (Susanna Mantovani, coordinatrice scientifica).
I ricercatori hanno proposto due questionari online parzialmente differenziati a seconda delle età: bambini di età compresa tra 1- 5 anni e bambini dai 6 ai 10 anni.
La ricerca ha coinvolto più di 3.000 famiglie – di cui la quasi totalità (93 per cento) madri con un titolo di studio medio alto – con bambini di questa fascia d’età residenti in tutte le province della Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia Covid-19, allo scopo di conoscere il vissuto e l’esperienza dei genitori e dei bambini durante il lockdown.
«Il focus della ricerca realizzata attraverso la rete di Pediatri di famiglia è rappresentato dai cambiamenti notati dai genitori nel comportamento dei bambini durante il periodo di chiusura, rilevati a due mesi di distanza, quando si erano ridotte le limitazioni alla vita quotidiana – afferma Marina Picca, Presidente SICuPP Lombardia».
Il quadro che emerge dall’indagine evidenzia da un lato una “sostanziale tenuta” sia da parte dei bambini nell’accettare le limitazioni (l’80,6 per cento dei bambini più piccoli ha “accettato le limitazioni”, seguito dall’83,3 per cento dei bambini più grandi) sia dei genitori (il 60,4 per cento delle madri dei piccoli e il 54,4 per cento di quelle dei bambini più grandi dice di “avercela fatta” con “alti e bassi”) ma dall’altro anche molteplici fonti di forte preoccupazione: alimentazione, sonno, attenzione, irritabilità, paure.
Bambini da 1 a 5 anni I genitori dei bambini più piccoli hanno riscontrato innanzitutto maggior irritabilità e un aumento dei capricci (oltre l’81 per cento), anche se sottolineano un miglioramento delle relazioni con i loro bambini (40,8 per cento) e tra i fratelli (32,8 per cento) e nello sviluppo linguistico (50 per cento). Due aspetti fondamentali nella crescita, come alimentazione e sonno, hanno subito rilevanti alterazioni: da un lato, si è riscontrata una riduzione di appetito (32 per cento) spesso però accompagnata da un aumento del consumo di snack (44,5 per cento); dall’altro, con una riduzione delle ore di sonno (37,4 per cento) e un aumento della frequenza dei risvegli notturni (oltre il 40 per cento). Inoltre, a preoccupare i genitori, un incremento considerevole (lo afferma il 66,6 per cento) della fruizione della televisione, un calo dell’attenzione che sfocia in svogliatezza (54,6 per cento) e un uso massiccio delle tecnologie digitali.
Bambini da 6 a 10 anni Ben l’83 per cento dei genitori dei più grandicelli ha riportato che il bambino ha accettato le limitazioni imposte dall’emergenza, dimostrando grande resilienza. Altro dato positivo, un miglioramento complessivo dei rapporti in famiglia: con i fratelli (lo segnalano oltre il 30 per cento) e con i genitori (38 per cento). Al contrario dei più piccoli, in relazione alle abitudini alimentari, nel 46,7 per cento dei bambini di questa fascia d’età si è riscontrato un aumento di appetito e di consumo di snack. Alterazioni che si sommano alle difficoltà ad addormentarsi (72,4 per cento) e ai risvegli notturni (30 per cento). Anche i genitori dei bambini più grandi hanno notato nei figli un comportamento più irritabile, unito a manifestazioni di rabbia (68,2 per cento) e una bassa e frammentata attenzione (83 per cento).
È proprio la riflessione sull’utilizzo delle tecnologie (4/6 ore al giorno) che si rende senz’altro necessaria secondo tutti i genitori: ma mentre i genitori dei più piccoli, sottolineano che i legami educativi a distanza (LEAD per i bambini 1-5, proposti dai Nidi e dalle Scuole dell’Infanzia), sono stati vissuti in modo positivo, per i più grandi la didattica a distanza, pur adeguata per il 42,2per cento, ha evidenziato diverse criticità e limiti (dalle relazioni alla gestione familiare).
Entrambi i questionari terminavano infine con l’unica domanda aperta: “Quali sono le preoccupazioni per il futuro?”. Le prime analisi delle risposte segnalano alcune preoccupazioni “ricorrenti”: tra queste, su 1688 risposte di genitori di piccoli e 1703 risposte di genitori di bambini più grandi, ne emergono due, oggi molto attuali, su “come sarà la scuola” e “sulle relazioni sociali tra pari”.
«Quest’indagine – sottolinea Susanna Mantovani, pedagogista e coordinatrice scientifica dello spin off Bambini Bicocca– è stata un’esperienza preziosa di collaborazione tra pediatri e ricercatori in ambito educativo: è la prima fase di un percorso per monitorare se i problemi riscontrati permangono e per orientare e sostenere i genitori nel periodo della ripresa. Coinvolgeremo anche insegnanti ed educatori, oggi è essenziale fare rete. Nell’insieme i genitori ce l’hanno fatta, ma sono in ansia e hanno bisogno di supporto in questo tempo di straordinaria incertezza.»
Questo testo è il Comunicato Stampa pubblicato da Università degli studi di Milano Bicocca. Da qui potete scaricare il Report completo.
Coronavirus e bambini: nuova intervista con il dottore Antonio Clavenna
Quali sono i dubbi e le preoccupazioni riguardo la salute dei bambini? Approfondiamo con nuove domande nella seconda intervista al dott. Antonio Clavenna, Capo Unità del laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS. A cura delle coordinatrici dei servizi educativi di Eureka.
I dispositivi di protezione
Tamponi e test per la diagnosi del virus
Il punto sulle cure e i vaccini
Prima Parte
Il punto sulle cure e i vaccini. Seconda Parte
Modalità di diffusione del virus
Prima Parte
Modalità di diffusione del virus. Seconda Parte
Modalità di diffusione del virus. Terza Parte
Consigli e buone pratiche in vista della riapertura dei servizi
Prima Parte
Consigli e buone pratiche in vista della riapertura dei servizi. Seconda Parte
Consigli e buone pratiche in vista della riapertura dei servizi. Terza Parte
L’iniziativa è realizzata grazie al Progetto 123 Stella, cod. 2016-PIR-00063, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.
BAMBINI FASE 2 Al via il primo polo educativo sperimentale all’aperto con la supervisione dell’Istituto Mario Negri
Oggi vogliamo presentarvi il primo progetto educativo sperimentale all’aperto realizzato dal Comitato Scientifico della Cooperativa Sociale Eureka con la collaborazione del pedagogista dott. Francesco Caggio e la supervisione, per la salute psicofisica dei bambini e i protocolli igienico-sanitari, del Laboratorio per la Salute Materno Infantile, Dipartimento Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri-IRCCS di Milano.
Il progetto pilota, realizzato a Peschiera
Borromeo, si rivolge alle famiglie con bambini tra 18 mesi e 6
anni.
Una bella svolta per i bambini, che hanno l’impellente
necessità di un servizio educativo di qualità per socializzare, a distanza e
in sicurezza, come spiega Maurizio Bonati,
Direttore del Laboratorio per la Salute Materno Infantile.
Cosa possibile grazie ai protocolli messi a punto per il nuovo
polo.
Una svolta cruciale per le famiglie, soprattutto per le madri
lavoratrici, duramente colpite dal lockdown, come sottolinea la
sindaca di Peschiera, Caterina Molinari, di fatto impossibilitate
a lavorare.
Eureka ha studiato una pedagogia specifica tutta da vivere all’aperto, che trasforma le limitazioni e le norme di distanziamento in occasioni di scoperta e aiuta a bonificare le emozioni negative assorbite dai bambini durante il lock down.
I primi articoli sul progetto potete trovarli nella nostra Rassegna Stampa
Quali sono i dubbi e le preoccupazioni dei genitori riguardo la salute dei bambini? Eureka offre ai genitori la possibilità di parlarne con un esperto e propone una serie di incontri. Il primo ciclo ha coinvolto le coordinatrici dei servizi educativi di Eureka e il Dr. Antonio Clavenna che lavora all’interno del laboratorio per la salute materno infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS. I ricercatori sono oggi impegnati sul fronte Covid 19 per studiare il virus e le sue implicazioni e dare informazioni sempre aggiornate. Eureka collabora con l’Istituto da qualche anno.
Introduzione
I bambini e il corona virus, la sindrome di Kawasaki
Mascherine, lacrime e insonnia
Le fasce d’età dei bambini
I Farmaci
Perché tengono chiusi nidi e scuole in Italia?
L’iniziativa è realizzata grazie al Progetto 123 Stella, cod. 2016-PIR-00063, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile.
Ripartono i corsi di formazione per la figura professionale dell’Assistente Familiare organizzati da CuraMi, in collaborazione con le associazioni dei datori di lavoro del settore domestico. Sono stati ripensati e strutturati in modalità e-learning, nel rispetto delle misure di contenimento dell’attuale emergenza. Le lezioni si svolgono in un’aula virtuale in cui il docente e i corsisti sono connessi e possono interagire in tempo reale.
I corsi in programma sono gratuiti e sono rivolti alla formazione dei profili professionali di colf, badanti e baby sitter:
– Assistente alla persona: corso base di 40 ore.
– Assistente alla persona – badante: corso di 64 ore composto da un modulo di 40 ore di competenze di base e da un secondo modulo di 24 ore che si concentra sugli argomenti più specifici del lavoro di assistente familiare per persone anziane.
– Assistente alla persona – baby sitter: corso di 64 ore composto da un modulo di 40 ore di competenze di base e da un secondo modulo di 24 ore che si concentra sugli argomenti attinenti l’accudimento dei bambini.
La parte pratica prevista verrà completata in sede quando sarà rientrata l’emergenza coronavirus. Per maggiori informazioni sui corsi in programma e per iscriversi è possibile contattare CuraMi al telefono: 0240297643 e via mail: curami@coopeureka.it.
Ricordati di vivere: riflessioni di una “vetusta” psicologa sul tema della morte
di Wally Capuzzo
Questo articolo tratterà della morte. Fin da giovane non solo come psicologa, mi sono trovata ad affrontare questo difficile tema, che accompagna tutta la nostra vita. Di solito si evita di pensarci, a meno che non ne siamo coinvolti per la scomparsa di un parente, un amico, un vicino. In realtà nella misura in cui nasciamo, siamo destinati a morire, prima o poi. Spesso facciamo come gli struzzi. Qui parlerò delle esperienze personali e professionali e delle mie riflessioni in merito. Mi auguro che tali pensieri possano essere di aiuto ad altri più o meno giovani psicologi, insegnanti, genitori che, in quanto adulti, devono poter maturare una visione sulla vita e sulla sua fine, special mente quando hanno a che fare, a qualsiasi titolo, con dei bambini.
Parole chiave:
elaborazione del lutto, resilienza, rimozione, razionalizzazione.
This article
will deal with death. From a young
age as a psychologist I found myself
facing this difficult topic, which accompanies our whole life. We usually avoid thinking about
it unless we are overwhelmed by the disappearance of a relative, a friend, or a neighbor. In reality,
to the extent
that we come
into the world, we are destined to die sooner
or later. Here I will talk
about personal and professional experiences and my reflections on them. I hope that these thoughts
can be of help to other young
psychologists, teachers, parents who,
as adults, must
be able to develop a vision of life and
its end, especially when they are involved in any way with children.
Wally Capuzzo è psicologa e psicoterapeuta. Ha svolto per quaranta anni la propria attività nei Servizi Pubblici in Lombardia. Socio fondatore e docente dell’Istituto Psicoterapia del bambino e dell’adolescente di Milano.
Io me ne vado lascio gocce sull’erba per chi le berrà. K. Cavatorta
PORTARE LA PAROLA
“ Wally
mi puoi dare una mano per una situazione un po’ difficile?”, è la richiesta che mi ha rivolto, più di quarantacinque anni fa, una bravissima pediatra, con cui ho collaborato per moltissimi anni.
Si trattava di Paolo, di quattro anni, con genitori molto
competenti e adeguati. Fino il giorno prima il bambino, aveva “goduto” di un
nonno materno, Mario, da sempre molto presente nella sua vita: lo accompagnava
a scuola e ai giardini, gli raccontava le favole, parlava e giocava molto con
lui. Era molto presente nella famiglia del nipotino pur abitando in un altro
quartiere. Il nonno era una persona molto responsabile, molto amato, di cui i
genitori di Paolo si fidavano ciecamente.
Il giorno prima il signore aveva avuto un ictus, in casa
della figlia, in presenza del nipotino. Era stato portato in ospedale a sirene
spiegate sprofondato in un coma profondo. C’erano pochissime speranze che
potesse sopravvivere e, se ciò fosse avvenuto, Mario sarebbe rimasto gravemente
defedato con importanti conseguenze sia fisiche sia mentali. I genitori non
sapevano come parlare al bambino della situazione. Paolo non aveva chiesto
nulla e si chiedevano: “ Perché?”
I bambini sono molto più saggi di noi adulti, a volte non
fanno domande perché “sentono” che noi “grandi” saremmo in difficoltà nel
rispondere loro.
Ho dato la mia disponibilità a vedere la mamma e il papà di
Paolo per il giorno successivo. L’appuntamento viene disdetto con una telefonata
dal padre che mi comunica l’avvenuta morte del nonno. La madre di Paolo è molto
provata e il bambino è alla scuola materna. Il signore mi chiede se deve
andarlo a riprendere. Io consiglio di lasciarlo in classe fino alla fine
dell’orario abituale. Gli suggerisco di essere molto vicino alla moglie e gli
consiglio di andare personalmente a prendere Paolo a scuola, portarlo ai
giardini, comunicargli in modo affettuoso la morte del nonno facendo merenda
insieme. Il padre mi chiede se portare il bambino al funerale. Io rispondo che,
a mio parere, ciò sarebbe opportuno, ma che devono valutare loro cosa fare.
Il signore mi richiama due giorni dopo per dirmi che Paolo ha voluto lui
andare a scuola il giorno del funerale. In realtà la decisione è della madre
che, essendo molto sofferente, riteneva che la cerimonia funebre potesse
turbare il piccolo. Io avevo suggerito al padre fin dalla prima telefonata, di
informare l’educatrice della scuola materna del decesso del nonno. La maestra,
parla in classe con tutti i bambini della morte.
Quando il padre va a riprendere Paolo, alla fine della giornata delle esequie, il bambino dice: “Dobbiamo dire alla mamma di non piangere abbiamo parlato con la maestra Giulia e abbiamo scoperto che anche il suo nonno è morto e anche il cane di Federico e il vicino di casa di Andrea. Adesso loro sono tutti insieme, si fanno compagnia e ci aspettano per quando anche noi saremo vecchi e andremo a raggiungerli”.
Ed è anche uno dei motivi per cui mi sono occupata e ancora oggi mi occupo della morte. Tema molto importante nella nostra vita, particolarmente nella mia professione, che esercito da più di cinquant’anni.
È un tema non facile, molto intrigante con cui confrontarsi.
Spesso facciamo “ gli struzzi”. Sappiamo razionalmente che la morte c’è e che,
prima o poi, moriremo ma di solito evitiamo di soffermarci col pensiero e
facciamo “come se” non esistesse; salvo poi rimanerne travolti quando questo
triste evento ci colpisce direttamente o indirettamente o ci viene richiesto
un aiuto a livello professionale.
Ricordo un altro episodio drammatico: le educatrici di un
asilo nido comunale che seguivo settimanalmente, mi informano che, due settimane
prima era morto il papà di Federico, un bambino di due anni che frequentava il
nido da sei mesi. Il fatto era avvenuto due weekend prima. Il padre, che era
andato a trovarli al mare, guidava la moto che la compagna gli aveva regalato
per il suo quarantacinquesimo compleanno e ha avuto un incidente mortale in
autostrada. La madre di Federico ha già figlie adolescenti di diciassette e
vent’ anni, nate dal precedente matrimonio. In questa circostanza, le sono
state molto vicine e si sono occupate del fratellino, rimanendo al mare con
lui. Federico è rientrato regolarmente al nido la settimana successiva.
Piccolo particolare di cronaca: c’è già stato il funerale
cui il bambino non ha partecipato; non solo, nessuno lo ha ancora informato
della morte del suo papà. La madre non è riuscita a dirglielo.
Io suggerisco all’educatrice di farmi chiamare dalla
signora, che lo fa nel giro di poche ore. Riesco a incontrarla il giorno dopo:
è venerdì. Passiamo lungo tempo assieme; la signora sta molto male. La
conforto per quello che posso, ma le comunico anche l’importanza e la necessità
che lei riesca a comunicare a Federico quanto è successo. Lei mi detesta
profondamente per le mie indicazioni. Le dico che, se lei non ci riuscirà nel
fine settimana, la rivedrò lunedì con il bambino per parlargli insieme. La
signora mi telefona all’ora dell’appuntamento per comunicarmi che, sabato
mattina, è riuscita a parlare con Federico, il bambino le ha detto: “lo sapevo
già!”.
In realtà non era riuscita, fino da allora, a informare il figlio perché lei stessa non ce la faceva ad accettare la morte del compagno. Non dirlo a Federico era un suo modo per negare l’accaduto.
I bambini, in effetti, sono più “ maturi” di quanto i
“grandi” pensino. Sono anche molto più realistici e concreti di noi,
comprendono anche quello che non diciamo. Hanno le antenne per cogliere quanto
succede intorno, di là di quello che riusciamo a comunicare loro con le parole.
Sembrano accettare le nostre banali spiegazioni ma se non si dice loro la
verità, lo percepiscono benissimo. Come già scritto, spesso non fanno domande e
apparentemente accettano passivamente quanto diciamo. Percepiscono che la
verità è altra! Magari razionalmente non riescono a dare parola a quello che
sentono, ma “sanno” che nascondiamo loro qualcosa. Questo fa loro molto male e
può indurli a non fidarsi più di noi.
Le cose spiacevoli (malattie, morte, separazione, ecc…)
che mandano in crisi noi adulti, vanno comunicate ai bambini nel modo più
semplice e tollerabile per loro, senza necessariamente entrare nei minimi
particolari. Siamo noi adulti ad essere in difficoltà a parlare con i bambini,
soprattutto delle cose che per noi sono difficili da elaborare.
Spesso suggerisco di raccontare delle fiabe, possibilmente
inventate appositamente, per parlare di cosa è successo o sta accadendo. I
protagonisti devono essere degli animali che affrontano momenti difficili, come
quelli che si stanno attraversando. Le favole devono finire sempre bene, ma non
in modo miracolistico. La madre che è defunta, resta morta ma rimane presente
nella vita del cucciolo per proteggerlo, anche se lui non può più vederla,
annusarla e toccarla.
Questo vale anche per altri fatti più o meno importanti
(oltre alla morte, separazioni, malattie, operazioni chirurgiche, traslochi,
furti…).
Il più delle volte i bambini dopo la narrazione di una favola possono commentare: “Come è successo a me!” oppure, immagazzinano il contenuto e sono pronti a recepire quello che verrà detto loro successivamente, sui fatti reali. Per noi adulti, inventare e raccontare su “ misura” al bambino, oppure adattare una fiaba, può essere un modo per rendere la realtà più tollerabile anche a noi stessi. Del resto le favole, soprattutto quelle classiche, da sempre raccontano e trattano i temi della vita e della morte e finiscono comunque bene, nonostante le avversità: la vita continua, deve poter continuare, anche se certi momenti possono essere molto duri, difficili!
Nella nostra società attuale, centrata sul benessere e il
consumismo, sembra che i temi della sofferenza non debbano esistere. Quando
capita qualcosa che irrompe nella nostra vita, ne restiamo spesso sconvolti,
non ci sembra giusto, ci chiediamo: “Che cosa ho fatto di male? Perché a me?”.
Ci diciamo che non è giusto e ci sembra che ci sia capitato qualcosa che non
doveva succedere. In realtà la vita è cosi. Va vissuta, momento per momento,
accettandone la realtà, a volte spiacevole.
Quando mettiamo al mondo un figlio, nasce una creatura che è
destinata a morire. I sogni delle madri in gravidanza ce lo dicono di
continuo. In realtà, se decidiamo di avere un figlio lo facciamo perché, nel
profondo, crediamo nella vita e nei suoi valori. Se ci pensassimo fino in fondo
magari potremmo scegliere che non ha senso di mettere al mondo un altro essere
umano. Quando decidiamo scientemente di concepire un figlio, nel profondo
abbiamo la sensazione di continuare a vivere in eterno, attraverso di lui.
“Beati i genitori che premuoiono ai figli” dice il saggio
Confucio.
Nella logica delle cose si muore da vecchi, senza soffrire.
Nella realtà non è sempre cosi. Noi evitiamo di pensarci a meno che questo evento
terrificante non capiti nella nostra famiglia o alle persone a noi vicine. È
come se negassimo emotivamente, a volte anche razionalmente, l’esistenza e la
realtà della morte. Per questo motivo, spesso evitiamo di collegare disagi e
sintomi dei bambini ai fatti che ci accadono.
Una giovane madre laureata toscana, trasferitasi a Milano per lavoro, chiede di parlarmi nella sala di attesa del consultorio pediatrico
portando le difficoltà che Costanza, la sua primogenita di quasi tre anni, manifestava da qualche tempo: faticava a dormire, si svegliava piangendo, era diventata capricciosa ed inappetente. La pediatra del consultorio riteneva che la bambina fosse sana a livello fisico e pensava che le difficoltà comportamentali fossero la conseguenza di problematiche psicologiche.
A giugno era nato un fratellino, Marco e la signora era rimasta
in Toscana con i due bambini durante i mesi estivi con i propri genitori nella
casa di campagna. La bambina durante quel periodo, non aveva mostrato alcun
disagio. Al rientro a Milano, pur essendo la madre rimasta a casa con lei e il
fratellino, aveva manifestato il suo malessere in maniera crescente. Incontrerò
successivamente la madre e il padre tutti i due molto preoccupati per la
piccola Costanza. Un mese dopo, in un colloquio con entrambi i genitori è
emerso un fatto di cui non mi avevano ancora parlato: in luglio era morta
Maria, sessantacinquenne loro vicina di casa, una specie di nonna adottiva,
molto presente nella vita della loro famiglia. Questa signora vedeva
giornalmente Costanza, affidata alle cure della domestica filippina quando loro
erano al lavoro. Maria passava molto tempo con la piccola e spesso faceva loro
trovare dei manicaretti pronti. Erano così soddisfatti e felici della loro
situazione da cercare un secondo figlio. Arriveranno a dire: “Se avessimo
saputo che Maria sarebbe morta, non avremmo programmato Francesco”
Con Costanza non avevano mai più nominato Maria e non
avevano nemmeno più visto il marito della signora perché era troppo sofferente
ed era doloroso per loro incontrarlo. Fino a quel momento, non erano quasi più
riusciti ad affrontare l’argomento fra loro. Ho successivamente parlato in
loro presenza con Francesco e Costanza di Maria. Ho detto al bambino che era un
peccato che non avesse conosciuto la Signora che era molto brava e molto buona.
Successivamente ho comunicato a Costanza che non avrebbe più rivisto Maria
perché non c’era più, non perché fosse arrabbiata con lei: “Era proprio
morta!”. I genitori erano commossi entrambi; la mamma piangeva e la bambina
ascoltava in silenzio, con molta attenzione. Successivamente, Costanza si è
“quasi magicamente acquietata”.
Tra i temi difficili di cui parlare ai bambini sicuramente uno dei più ardui da affrontare è quello del lutto e in genere dei fatti traumatici della vita. Per tutti è estremamente difficile parlare della morte con “i piccoli”. Districarsi in questo ambito tanto complesso non è facile. Il silenzio e le negazioni, nelle varie forme, regna¬no sovrani. È importante e utile dedicare uno spazio di riflessione per capire e comprendere che cosa succede “ai grandi” (genitori, psicologi, docenti, educatori …) per essere di aiuto ai bambini e alla parte “piccola” dei “grandi”.
Alba Marcoli, riprendendo alcuni concetti di Bowlby, dice che se un bambino che perde un genitore, viene accompagnato dagli adulti che lo circondano in modo paziente e rispettoso dei suoi tempi, dei sentimenti ed emozioni, è più facile che possa attraversare il suo dolore dall’inizio alla fine, uscendone non solo integro, ma spesso anche rinforzato. Il suo lutto sarà elaborato. Quando invece questo non succede, per qualsiasi motivo, ma soprattutto per il tipo di funzionamento mentale che entra nel gioco relazione adulti-bambini, è possibile che il lutto non venga elaborato e si trasformi in un trauma: non per cattiva volontà di qualcuno ma perché l’ambiente circostante non è stato in grado di aiutarne l’elaborazione. Affinché questa possa avvenire è necessario che gli adulti intorno accompagnino l’esperienza di perdita riconoscendola, dandole parole e condividendo il dolore del bambino, per non lasciarlo da solo con emozioni più grandi di lui che, difficilmente, è in grado di rappresentarsi nella mente trasformandole in pensieri. Una cosa pensabile fa meno paura, terrorizza di meno.
È importante che il tema della morte e dei distacchi venga
affrontato con i bambini anche di fronte a perdite di animali. Dire che
l’uccellino è volato via o il cane è scappato, che il gatto è stato rubato,
quando nella realtà c’è stato un decesso, è mistificante.
I bambini possono e debbono affrontare queste esperienze che sicuramente li faranno soffrire e magari piangere (può succedere anche a noi “grandi”). Accudire l’animale amato, seppellirlo e accettare che non viva più è un modo per crescere e poter elaborare successivamente lutti più importanti.
Giovanna, una signora che ho seguito per molto tempo, quando
morì il marito, affetto da un tumore, mi disse:” Meno male che lei Wally, due
anni prima, mi aveva fatto seppellire la nostra gatta con Titti la mia bambina
di otto anni. Io allora non capivo perché dovessi far soffrire la mia piccola.
L’ho fatto perché me l’ha consigliato lei, ma non ne ero proprio convinta!”
Io ricordo che, essendo vissuta in campagna, ho avuto la
fortuna di essere a contatto con la vita degli animali. Noi bambini avevamo
adottato un cane bruttissimo, Leo, che amavamo moltissimo e a cui davamo di
nascosto tutto il cibo possibile. Ad un certo punto è morto, forse per
indigestione. Abbiamo pianto tutti, dal più piccolo che sei anni a quello di
dodici. L’abbiamo sepolto sotto una vigna, scelta con cura, con una scatola di
legno. Abbiamo messo una croce, fatta da noi e gli abbiamo portato dei fiori
per molto tempo.
A distanza di settant’ anni me lo ricordo ancora. Di
recente sono stata al mio paese natale e ho scoperto che alcuni dei miei
compagni di gioco di allora si ricordavano anche loro di Leo.
I riti che accompagnano la morte, cerimonie varie a seconda
delle religioni, e usi e costumi, servono ad aiutare a separarsi dalla persona
che è mancata. Partecipare aiuta ad accettare la realtà. Concita De Gregorio,
in un suo libro, dice che lei può non andare alle cerimonie nuziali, ma non si
perde un solo funerale. In effetti ha ragione!
I funerali sono occasioni molto più importanti, ci si
rivede con le persone del nostro più o meno lontano passato: “amarcord” con i
conoscenti che ritrovi e cui, forse, non ti rivedrai mai più. Colleghi le tue
esperienze passate con il presente e con la consapevolezza della realtà della
morte, il più delle volte, in modo non solo triste. Spesso bere o mangiare
insieme conclude questi incontri che possono essere molto intensi e perché
no? “Piacevoli”.
Ricordo un pranzo dopo il funerale della mia ultima zia materna. Ho sentito che non potevo non partecipare. Ero in vacanza in Puglia, ho attraversato tutta l’Italia, sono andata dal parrucchiere e mi sono messa il vestito più carino (mia madre mi aveva sempre insegnano che ai funerali si doveva andare in ordine!).
Ho ritrovato i miei cugini e i loro amici con cui avevo
giocato da piccola, e che, in altre circostanze,non avrei mai riconosciuto. È
stato un pranzo “speciale”: ce lo ricordiamo tutti. Abbiamo anche pianto ma
soprattutto riso e scherzato, ricordando le cose belle che si erano fatte
insieme.
IL LUTTO E GLI OPERATORI SANITARI E SOCIALI
Le difficoltà ad accettare la fatalità della morte riguarda
anche il personale sanitario, sociale ed educativo (medici, psicologi,
insegnanti, educatori). Cominciamo con i medici e il personale sanitario
degli ospedale. Nel bellissimo libro di Eric Schmitt “Oscar e la dama in rosa”
viene espresso molto bene quello che il paziente prova nell’affrontare
l’ultima parte della vita. Nel testo Oscar è un bambino di circa otto anni, che
si chiede cosa gli stia succedendo, dice che nessuno risponde alle sue domande.
Tutti si imbarazzano e cambiano discorso.
In effetti per rispondere a chi ti chiede: “Come sto? E che
cosa mi stia succedendo?” può essere molto facile se la situazione è sotto
controllo e con una prospettiva di guarigione, non lo è altrettanto se invece
la prognosi è infausta. Di solito l’interrogato resta nel vago, si arrampica
sugli specchi e il più delle volte si cambia discorso. Questo succede normalmente
con i bambini.
Schmitt dice, attraverso il bambino, che un malato che non è
destinato a guarire delude, manda in crisi, mina la tua onnipotenza, ti fa
sentire colpevole e non capace.
Ad un incontro con operatori sanitari molto competenti (erano medici e psicologi), una ematologa ha parlato della sua esperienza con una paziente che stava seguendo da otto anni e che era morta quando lei era partita per le vacanze. Si sapeva che la signora non poteva guarire per la sua grave malattia ma nei giorni immediatamente precedenti alla partenza della curante, la malata era un po’ migliorata. La sua morte aveva profondamente toccato la dottoressa. Sapeva che sarebbe successo ma l’evento l’aveva colpita molto profondamente. Ha detto: ”Meno male che ero in vacanza, non sarei stata capace di occuparmi di altri ammalati. Si sentiva colpevole di “aver creato tre orfani”. La signora deceduta aveva infatti tre figli, l’ultimo di otto anni era stato concepito subito prima della scoperta della malattia. C’erano state delle perplessità sul poter continuare la gravidanza. La dottoressa aveva sostenuto il desiderio della paziente di mettere al mondo un altro figlio.
Si è lavorato nel gruppo sul fatto che era stata la vita a
creare tre orfani e che lei, la curante, aveva solo aiutato la madre a
continuar a vivere al meglio possibile per altri otto anni. La dottoressa si
era molto affezionata alla paziente e diceva che soffriva moltissimo e la
sognava tutte le notti. La sera prima dell’incontro di gruppo dice che il sogno
era cambiato: c’era sempre la sua paziente come oggetto, ma invece di vederla
ne parlava con sua madre!
Era evidente che stava uscendo della fase acuta
dell’elaborazione del lutto che, come vediamo, colpisce anche i curanti.
Da anni tengo incontri mensili con medici e psicologi che
lavorano nello stesso reparto, proprio per elaborare insieme anche le emozioni
e i sentimenti connessi alla cura. Per i primi sei anni il gruppo era
esclusivamente femminile. Qualche volta si affacciava un collega medico che poi
spariva velocemente. Solo negli ultimi mesi si comincia ad avere qualche uomo
in più.
La “Cura” per sua connotazione anche storica è legata al
femminile. Da sempre, in tutte le culture, sono le donne ad occuparsi dei bambini,
dei vecchi, dei sofferenti. Solo di recente i padri si sono affacciati al mondo
dell’infanzia. Attualmente si occupano in genere di più dei figli,
inizialmente soprattutto per motivi economici. In questo momento storico molti
padri hanno scoperto il piacere e la fatica di accudire i propri figli, anche
se spesso rischiano di diventare “dei fratelloni”.
Tornando alla cura, è la parte femminile quella affettiva,
che hanno anche gli uomini e subentra quando si cura non solo a livello tecnico
e meccanico. Si può accudire fisicamente un bambino in modo igienico e distaccato,
ma di solito, entra in gioco la parte affettiva e relazionale. La stessa cosa
vale nell’accudimento di una persona anziana o di un malato. È per questo che è
molto importante che anche gli infermieri vengano supportati (andrebbe fatto
anche con le baby-sitter e le badanti).
Svolgere una professione di cura non vuol dire essere sempre consapevoli e competenti al livello emotivo sui fatti della vita. Esercitare la professione di medico, specialmente in alcuni settori, espone al rischio di conflitti interni e momenti di angoscia destabilizzante.
Ricordo una bravissima anziana pediatra, primaria di un reparto di prematuri ad alto rischio, che mi confidava come le giovani colleghe femmine difficilmente restavano nel reparto più di sei mesi. I bambini quando non morivano, sopravvivevano spesso defedati. I colleghi maschi reggevano un po’ di più, in genere due anni e con lei erano rimasti stabili soltanto due aiuti uomini.
E GLI PSICOLOGI?
Non è che il problema non tocchi gli psicologi anche quando
sono psicoterapeuti.
Da molti anni ho realizzato come sia difficile trovare
qualcuno in ambito privato che prenda in carico pazienti con grave patologie o
con malattie incurabili. Lo fanno di solito solo gli operatori che lavorano
presso istituzioni preposte.
Mi è capitato a lezione, in una scuola di psicoterapia, che un allievo, dipendente da un ASL dicesse: ”Meno male che non è capitato a me”. Si trattava di un delitto (una signora aveva ucciso un’amica, madre di una compagna di scuola della figlia e l’ASL aveva chiesto che uno psicologo intervenisse sul caso). Naturalmente ho redarguito il collega. Successivamente ho discusso a lungo con gli allievi sulla situazione. Tutti gli psicologi che lavorano con le istituzione dovrebbero essere pronti ad intervenire, supportandosi a vicenda e, se serve, facendosi sostenere da qualcuno di più esperto, nel caso non si sentissero competenti.
Non si può fare lo struzzo di fronte ai fatti della vita
soprattutto se si svolgono funzioni sociali o di cura.
Durante il periodo estivo, è deceduta una collega di cinquant’anni, madre di tre figli. Era stata ricoverata per una colica, aveva un tumore in fase progredita, nessuno se ne era accorto ed morta cinque giorni dopo. La cosa ha sconvolto la famiglia, gli amici e i colleghi. Una di queste, molto amica della defunta, con cui condivideva lo studio, mi telefona sconvolta annunciando il fatto. Io la supporto nel limite del possibile. Mi sono informata sulla famiglia e sui figli della defunta. Parlo successivamente con un altro collega, meno turbato, che si era messa in contatto con me per avere dei suggerimenti su come intervenire con i bambini e su cosa leggere loro: di solito in questi casi suggerisco “Mattia e il nonno” di Roberto Piumini, che va letto o raccontato ai bambini (lo ritengo un buon testo per affrontare in modo sereno il tema della morte anche per noi stessi).
Tornando alla giovane collega, sconvolta ed angosciata per
la scomparsa dell’amica, il che è più che comprensibile, scoprirò in seguito
che in quei giorni aveva incontrato per caso la giovane paziente quindicenne
della sua collega defunta e l’aveva abbracciata singhiozzando e informandola
della morte della sua psicoterapeuta. La giovane, molto “più sana” della mia
collega, ha telefonato al responsabile del centro dicendogli di trovarle un
altro terapeuta ma segnalando che, a suo avviso, la dottoressa, che l’aveva
informata stava molto male e che era urgente darle una mano!
È evidente che noi psicologi non possiamo e non dobbiamo
riversare sugli altri le nostre difficoltà. Quando noi stessi siamo in crisi o
in difficoltà, ci capita come a tutti, dobbiamo prenderci del tempo fisico e
mentale, nel limite del possibile, farci aiutare se serve e solo successivamente
essere disponibili ad occuparci degli altri che ci chiedono aiuto.
Ricordo una donna molto provata della vita (aveva avuto una
figlia di cinque anni abusata dal marito, padre della bambina) che mi era stata
inviata al Servizio del Tribunale dei minori. La signora mi dice:” Dottoressa
come sta? Guardi che noi abbiamo bisogno che lei stia bene perché ci possa
aiutare”.
Era un momento molto difficile della mia vita, io ero molto
provata e lei lo aveva colto.
Tutti possono avere momenti connotati da perdite, lutti, malattie che possono mettere a dura prova. L’importante è esserne consapevoli e cercare di non proiettare sugli altri i nostri malesseri. Il lavoro su di sé è essenziale per poter essere abbastanza sereni e autentici nello stare con gli altri. Non a caso viene richiesta per il nostro lavoro un’ analisi personale, che può essere più o meno lunga, ma che deve continuare tutta la vita, dentro di sé.
GLI EDUCATORI E IL LUTTO
Se si svolgono i lavori di tipo educativo (partendo dal nido
fino all’università), ci si troverà prima o poi ad affrontare il tema della
morte di genitori o parenti propri o degli allievi. Più i bambini sono piccoli
(nido e scuola dell’infanzia) più è facile che l’educatore si metta in discussione
e chieda aiuto su come intervenire e cosa dire ai bambini cui è toccata la
perdita di un familiare. Le educatrice sono più vicine ai piccoli e alle loro
famiglie e si sentono parte in causa. Non ho mai avuto problemi a dare un
supporto direttamente o indirettamente, di solito vengo compresa molto
velocemente emotivamente e non solo razionalmente.
In un recente passato ho tenuto dei gruppi con educatrici
di tale fasce di età e parlare con loro della vita e della morte è stato
estremamente facile e soddisfacente con buoni risvolti nell’ambiente di
lavoro. Nei nidi e nelle scuole dell’infanzia si è creato spesso una “cultura”
in tal senso che viene trasmessa naturalmente anche alle educatrici che non
hanno partecipato direttamente alla formazione.
È una cosa molto bella e gratificante. Senti che sei utile a
qualcosa. Con gli insegnanti dalla scuola primaria e delle superiori è sempre
più difficile portare contributi in questo campo.
Nell’ultimo anno di frequenza della scuola materna, al mio
nipotino di cinque anni, nell’ultimo giorno di scuola, è successo che è morta
la madre del suo compagno di classe. Le educatrici e alcune mamme hanno
partecipato al funerale. Successivamente, nel giardino di una di loro, le due
insegnanti hanno invitato per una merenda tutti gli alunni, compreso il bambino
rimasto orfano, che non avrebbero più rivisto a settembre. Hanno fatto giocare
i bambini, hanno parlato con loro insieme a Federico della morte della sua
mamma, assaporando le torte confezionate da loro.
A settembre, il primo giorno della scuola elementare, lo stesso nipote si è trovato in classe con Federico. Le maestre al termine del primo giorno di scuola dicono ai bambini di far firmare una comunicazione alla propria mamma “Chi sa mai perché solo alla madre?”.
Mio nipote dice: “La mamma di Federico è morta”. Le maestre
successivamente lo sgrideranno e diranno a tutta la classe che da ora in
avanti non si dovrà più dire la parola mamma in presenza di Federico e
successivamente la festa della mamma non si farà!
Sollecitata da una giovane collega, madre di un alunno di
quinta, una delle due maestre mi telefono per avere un aiuto: la rappresentante
di classe ha un tumore in fase terminale e mi chiede se c’è qualcosa da fare o
da dire ai bambini. Io suggerisco come sempre “Mattia e il nonno”, consiglio
loro di leggere il libro in classe, informando i genitori. Quando la signora
muore tutti gli alunni della classe parteciperanno al funerale. Ogni bambino ha
scritto una lettera al compagno sfortunato. Scoprirò però che, anche qui, verrà
annullata la festa della mamma per non turbare il bambino, creando così
problemi a tutta la classe.
Anche quando si riesce a parlare della morte di qualcuno
con i bambini, successivamente sembra quasi impossibile poter riprendere il discorso.
Ricordo un sacerdote mio amico che, quando gli ho chiesto
notizie di due sorelline rimaste orfane di madre due anni prima. (Volevo
inserirle gratuitamente in un gruppo di elaborazione del lutto che stavo
organizzando). Mi ha risposto: “ Sono tranquille! Non ne parlano mai!”.
Ho trovato spesso, che molte famiglie non parlano dei lutti
dei propri cari e di conoscenti, morti in un passato più meno lontano. Non se
ne parla più con i bambini, avendo paura che possano soffrirne. È esattamente
il contrario. I bambini sono “resilienti” e hanno la capacità di superare
momenti difficili spesso più di noi adulti. Hanno però bisogno di poter dare
parola a quello che sentono e lo possono fare solo se avvertono che noi adulti
siamo disponibili.
Ho avuto delle discussioni accese con persone “molto” religiose che di fronte al bambino che piangeva perché aveva nostalgia del papà, dicevano che il loro genitore era stato molto bravo e che Dio lo aveva voluto con sé e che era felice e stava bene. Spesso poi il bambino viene portato a dire una preghierina davanti alla foto del defunto, questo comportamento è assolutamente deleterio e controproducente. Il bambino, trattato in questo modo, potrà solo detestare un Dio che gli ha portato via i genitori e si sentirà colpevole dei suoi sentimenti.
Ritengo che la risposta più adeguata alla sofferenza del
bambino sia quella di permettergli di esprimere il suo dolore, unendoci al
suo, magari piangendo anche insieme, per poi consolarlo e consolarci,
abbracciandolo e mangiando insieme un bel gelato.
CONCLUSIONI
È per questo motivo che con un gruppo di colleghi da sette anni abbiamo istituito il progetto: “Ricordati di vivere: riflessioni sul tema della morte” (vedasi allegato). Al suo interno vengono programmati e condotti gruppi di bambini dai sei ai dodici anni, rimasti orfani di padre o di madre. In contemporanea si tengono gruppi paralleli con i loro genitori ancora viventi.
BIBLIOGRAFIA
Bowlby J., Attaccamento e perdita, Torino,
Bollati-Boringhieri, 1972.
Capuzzo W., Cavatorta C.,Paronetto D., Malattie gravi e
angoscia di morte, Quaderno dello Psiba, n° 39, Mimesis, 2013.
Capuzzo W., Turcato F., Quale Madre, Quale Padre Oggi…,
Quaderno 28 dello Psiba, 2008.
EDITORE Francesco Caggio – Via A. Tadino 13, 20124 Milano DOMICILIO REDAZIONE: Via A. Tadino 13, 20124 Milano REGISTRAZIONE: Registrazione Tribunale di Milano n° 95 del 08.04.2015 DIRETTORE RESPONSABILE: Francesco Caggio PROGETTO GRAFICO StudioIn3.com – via Granarolo 62 48018 FAENZA (RA) ISSN 2499-1481
IMMAGINE DI COPERTINA: La consistenza delle ferite, di Agostino Ricci
COMITATO DI CONSULENZA SCIENTIFICA Rosanna Abbatinali, Sant’Angelo Lodigiano Biagio Belmonte, Riccione Barbara Bernardi, Riccione Tiziana Bonfili, Roma Ilaria Bosi, Argenta Valentina Caggio, Faenza Luca Chicco, Trieste Anna Chiesa, Milano Ombretta Cortesi, Villanova di Bagnacavallo Carmen Dambra, Lainate Massimiliano Fabbri, Cotignola Elena Pasetti, Rezzato Ivana Pinardi, Parma Massimo Rabboni, Bergamo Ester Sabetta, Montefiore Conca Paola Tosi, Lodi Simona Zandonà, Milano IN REDAZIONE: Rosanna Abbatinali
Oggi i bambini associano lemascherine all’ansia e alla paura. Come noi. E’ importante aiutarli a sciogliere questa emozione e soprattutto a non affrontarla in solitudine. Come fare?
Per prima cosa bisogna aiutare i bambini a riconoscere le emozioni, a condividerle e a legittimarle. Esprimendo le nostre a voce alta, dopo averle filtrate con
consapevolezza: “la mamma si sente un po’ spaventata…”. Se siete in difficoltà a farlo potete iniziare leggendo storie con
protagonisti che affrontano situazioni simili. Ce ne sono moltissime perciò
non vi perdete d’animo e leggete ai
vostri bambini senza timore: è un
rimedio a tutti i mali e non ha controindicazioni.
Una volta riconosciute le emozioni, occorre spiegare ai bambini che nessuna
emozione è sbagliata, ci sono solo
comportamenti sbagliati. Raccontando anche di noi. La condivisione è un
elemento fondamentale della relazione educativa: si impara anche così, mettendosi nei panni degli altri. Gli adulti
devono essere consapevoli e fare attenzione: non bisogna scaricare addosso ai
più piccoli emozioni grezze, non
elaborate, che potrebbero travolgerli.
Mettere la testa sotto il tappeto per far finta di niente non funziona: i più piccoli hanno antenne incredibili che captano tutto! Percepiscono la realtà, non il nostro racconto della realtà. E sebariamo se ne accorgono: meglio evitare.
Allora, in sintesi, cosa fare per esorcizzare la paura delle mascherine e quindi della
malattia?
Diamo
modo ai bambini di rilasciare le emozioni negative,
che tolgono energia e ritornare alle emozioni
positive, che ci danno energia, usando
la creatività e il gioco.
Fare le mascherine in casa per sé e per i propri familiari è un’ottima occasione per sperimentare un’abitudine “a cambiare il veleno in medicina”: una lezione per la vita.
Possiamo iniziare costruendo e personalizzando a piacere le nostre mascherine. Il lavoro manuale, l’uso del disegno e dei colori, con la compagnia di persone che ci vogliono bene ci aiutano ad elaborare e integrare le esperienze di questi giorni. Stando molto attenti a seguire ilritmo e il tempo dei bambini, non il nostro. La mancanza di fretta aiuterà il bambino a godersi ogni passaggio. Poi potremo, per esempio, giocare con loro per “mascherarsi” a casa.
Ampliando il gioco con veri e propri travestimenti: faccio il medico, l’infermiere, il
mago delle pulizie. La mamma fa la paziente. La dottoressa. Guida l’ambulanza.
Poi lo faccio io… La drammatizzazione in scenette è utilissima per cambiare umore e integrare tutte le emozioni in gioco. Vi farà pensare. Vi farà ridere. Vi farà emozionare. E vi sorprenderete. dei risultati.
Trovi qui il video tutorial per realizzare le mascherine
Per tutti i bambini che stanno passando molto del loro tempo a casa, come salvarsi dalla noia e dallo sfinimento di tablet, video e cellulari?
Niente paura! Le nostre educatrici, in modalità “smart education”, vi svelano giochi e attività ideali per le famiglie, riunite da questa situazione anomala. Per stare bene insieme ai vostri bambini e scoprire le magie del gioco: scoperte, meraviglia, sorrisi e tutto il divertimento del mondo!
Il progetto Antinoia è nato a febbraio 2020 dalla volontà di dare un supporto concreto alle famiglie e ai loro bambini. Abbiamo creato così una raccolta di attività semplici e divertenti che continuiamo ad aggiornare ogni settimana. Oltre alle aree pedagogiche, non abbiamo trascurato l’importanza del movimento e delle attività fisiche inserendo una sezione dedicata al Fitness per tutta la famiglia.
La raccolta continuerà ad essere pubblicata anche sulla pagina Facebook. Seguici!
Professionalità coinvolte nella ideazione, selezione e realizzazione delle attività:
Comitato scientifico di Eureka! coadiuvato da:
coordinatrici servizi educativi 0-6 anni;
Paola Marchini, diploma per educatrice, CNRPP scuola triennale di psicomotricità;
Anna Parabiaghi, laurea in educatore professionale socio-pedagogico e diploma in musicoterapia;
Morgana Chemasi, laurea in scienze motorie, master in attività fisica ed educazione;
Gisella Giovanetti, dietista SIAN, ideatrice e firmataria del documento Pappa al Nido in uso nei nidi della città metropolitana.
In questa pagina inseriremo le nuove attività, se volete vedere le idee dei giorni scorsi potete trovarle nelle categorie elencate sotto.
La promozione della lettura è un’importante risorsa
di empowerment delle famiglie per la
promozione dello sviluppo emotivo, relazionale, sociale, cognitivo,
interpretativo e linguistico del bambino e della sua futura riuscita scolastica.
L’obiettivo è avvicinare il bambino al piacere per la
lettura, sostenendo e promuovendo la sua capacità di ascolto. In particolare la
lettura dialogica è una
modalità praticata da un adulto con un bambino piccolo, sotto forma di dialogo
interattivo con l’ascoltatore. Secondo Grover Whitehurst, pediatra e
psicologo americano contemporaneo, che ha coniato l’espressione, è la modalità
che consente ad un adulto di interagire più efficacemente con un bambino
durante la lettura.
Nella lettura dialogica l’adulto stimola il bambino a
partecipare alla lettura condivisa di un libro, facendogli domande,
espandendone le risposte e mettendo in relazione la storia del libro con
l’esperienza del bambino.
“La lettura dialogica differisce radicalmente dal modo tradizionale con cui gli adulti leggono ai bambini. Il cambiamento di ruolo è fondamentale: se nella tipica condizione di lettura l’adulto legge e il bambino ascolta, nella forma dialogica il bambino impara a divenire narratore della storia. L’adulto assume progressivamente il ruolo di ascoltatore attivo, proponendo domande, aggiungendo informazioni, suggerendo al bambino di arricchire l’esposizione contenuta nel libro”. Grover Whitehurst
Nella lettura dialogica il genitore è il primo a trovare piacere nella lettura per poi coinvolgere il bambino e trasmettergli la passione.
Lo stile narrativo del genitore è importante che presenti quattro caratteristiche fondamentali:
la proposta di suggestioni al
bambino al fine di stimolarlo a dare un nome agli oggetti, alle immagini del
libro o a parlare della storia o a raccontare quello che prova;
l’ascolto
della comprensione della risposta del bambino;
il suggerimento/proposta
di riletture e ampliamenti di vocabolario, lessico, interpretazione e
significato;
la ripetizione dell’affermazione del
bambino arricchita di nuovi spunti.
Leggere insieme ai genitori favorisce la relazione, valorizza la ricchezza del tempo trascorso insieme, nel ricordo dell’esperienza che rimane un patrimonio affettivo per la vita. Nutre e stimola nel bambino la mente, l’attenzione e il desiderio di scoprire cose nuove; favorisce il sonno ed il riposo, sostiene il bisogno di ritualità, creatività, interpretazione e inventiva.
dott.ssa Cristiana Piloni, coordinatrice nidi per la cooperativa sociale Eureka!
Wally è il mio nome di battesimo che viene spesso usato anche in contesto professionale perché qualcuno pensa che sia un cognome ed è comunque il nome che spesso bambini e genitori usano per rivolgersi a me. La cosa non mi ha mai creato problemi.
S.I.M.E.E: (Servizio di Igiene Mentale dell’Età Evolutiva)
Negli anni Settanta il comune di Milano ha istituito tali servizi in modo capillare, per ognuna delle venti zone di Milano. Ogni servizio era composto da équipe interdisciplinare con psicologi, europsichiatri, tecnici della riabilitazione (fisioterapisti-ortofonisti-psicomotricisti). Gli operatori erano in un numero variabili in proporzione alla densità della zona di appartenenza. Tutte le venti zone in cui la città era suddivisa aveva il proprio servizio. C’era un coordinamento centrale per i compiti istituzionali. Il motivo iniziale per cui erano stati istituiti era stato lo smantellamento delle scuole speciali con il conseguente inserimento dei bambini handicappati nelle normali strutture scolastiche (dall’asilo nido alle scuole primarie e secondarie). Nella città sono rimasti solo alcuni presidi centralizzati per situazioni di handicap gravissimi in cui l’inserimento non era possibile. Altro compito dei servizi è diventato poi la prevenzione, che riguardava l’individuo e gli ambienti di vita. Noi operatori abbiamo lavorato in modo capillare in collaborazione con le strutture educative per migliorarle e modificarle. In particolare l’attenzione è stata rivolta agli asilo nido che il comune di Milano aveva” ereditato” dall’ ONMI (Opera Nazionale Maternità Infanzia instituita per motivi sanitari e assistenziali dal fascismo e sciolta negli anni Settanta). Gli operatori dei S.I.M.E.E. hanno svolto un lavoro molto prezioso e incisivo in tali servizi che si sono trasformati da Assistenza in Educazione, grazie anche alla sensibilità di assessori come Carlo Cuomo che hanno sostenuto e supportato le indicazioni degli specialisti.
I Consultori Pediatrici sono stati istituiti dal Comune di Milano, in epoca poco anteriore a S.I.M.E.E. Erano distribuiti in tutta la città. Ogni asilo nido ne aveva uno con una Pediatra e un’Assistente Sanitaria, su modello ONMI. Ogni zona ne aveva un numero variabile in base alla densità della popolazione, spesso fungevano anche da Centri Vaccinali, al di fuori dei nidi. Il personale era sotto la direzione e un coordinamento centrale, come gli operatori della Medicina Scolastica e dei S.I.M.E.E. Esisteva un’ottima collaborazione fra gli operatori dei vari servizi, che interagivano attivamente sia sulle strutture sia sui singoli pazienti. In particolare il coordinamento fra il personale sanitario degli asilo nido e dei S.I.M.E.E era molto intenso. Io personalmente ero presente una volta a settimana in tutti i consultori della mia zona. Collaboravo attivamente con il pediatra e l’assistente sanitario, organizzando con loro incontri a tema rivolti ai genitori. Nell'orario della mia presenza, programmata a priori, la pediatra fissava gli appuntamenti con i casi problematici, in modo che fosse più agevole il contatto diretto e la possibilità degli interventi specialistici.
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