Ricordati di vivere: riflessioni di una “vetusta” psicologa sul tema della morte

di Wally Capuzzo

Questo articolo tratterà della morte. Fin da giovane non solo come psicologa, mi sono trovata ad affrontare questo difficile tema, che accompagna tutta la nostra vita. Di solito si evita di pensarci, a meno che non ne siamo coinvolti per la scomparsa di un parente, un amico, un  vicino. In realtà nella misura in cui nasciamo, siamo destinati a morire, prima o poi. Spesso facciamo come gli struzzi. Qui parlerò delle esperienze personali e professionali e delle mie riflessioni in merito. Mi auguro che tali pensieri possano essere di aiuto ad altri più o meno giovani psicologi, insegnanti, genitori che, in quanto adulti, devono poter maturare una visione sulla vita e sulla sua fine, special mente quando hanno a che fare, a qualsiasi titolo, con dei bambini.

Parole chiave: elaborazione del lutto, resilienza, rimozione, razionalizzazione.

This article will deal with death. From a young age as a psychologist I found myself facing this difficult topic, which accompanies our whole life. We usually avoid thinking about it unless we are overwhelmed by the disappearance of a relative, a friend, or a neighbor. In reality, to the extent that we come into the world, we are destined to die sooner or later. Here I will talk about personal and professional experiences and my reflections on them. I hope that these thoughts can be of help to other young psychologists, teachers, parents who, as adults, must be able to develop a vision of life and its end, especially when they are involved in any way with children.

Keywords: mourning processing, resilience, removal, rationalization.

Wally Capuzzo è psicologa e psicoterapeuta. Ha svolto per quaranta anni la propria attività nei Servizi Pubblici in Lom­bardia. Socio fondatore e docente dell’Istituto Psicoterapia del bambino e dell’adolescente di Milano.

Io me ne vado lascio gocce sull’erba per chi le berrà.
K. Cavatorta

PORTARE LA PAROLA

Wally mi puoi dare una mano per una situa­zione un po’ difficile?”, è la richiesta che mi ha rivolto, più di quarantacinque anni fa, una bravissima pediatra, con cui ho collaborato per moltissimi anni.

Si trattava di Paolo, di quattro anni, con ge­nitori molto competenti e adeguati. Fino il giorno prima il bambino, aveva “goduto” di un nonno ma­terno, Mario, da sempre molto presente nella sua vita: lo accompagnava a scuola e ai giardini, gli raccontava le favole, parlava e giocava molto con lui. Era molto presente nella famiglia del nipotino pur abitando in un altro quartiere. Il nonno era una persona molto responsabile, molto amato, di cui i genitori di Paolo si fidavano ciecamente.

Il giorno prima il signore aveva avuto un ictus, in casa della figlia, in presenza del nipotino. Era stato portato in ospedale a sirene spiegate spro­fondato in un coma profondo. C’erano pochissi­me speranze che potesse sopravvivere e, se ciò fosse avvenuto, Mario sarebbe rimasto grave­mente defedato con importanti conseguenze sia fisiche sia mentali. I genitori non sapevano come parlare al bambino della situazione. Paolo non aveva chiesto nulla e si chiedevano: “ Perché?”

I bambini sono molto più saggi di noi adul­ti, a volte non fanno domande perché “sento­no” che noi “grandi” saremmo in difficoltà nel rispondere loro.

Ho dato la mia disponibilità a vedere la mam­ma e il papà di Paolo per il giorno successivo. L’appuntamento viene disdetto con una telefona­ta dal padre che mi comunica l’avvenuta morte del nonno. La madre di Paolo è molto provata e il bambino è alla scuola materna. Il signore mi chie­de se deve andarlo a riprendere. Io consiglio di lasciarlo in classe fino alla fine dell’orario abituale. Gli suggerisco di essere molto vicino alla moglie e gli consiglio di andare personalmente a prendere Paolo a scuola, portarlo ai giardini, comunicargli in modo affettuoso la morte del nonno facendo merenda insieme. Il padre mi chiede se portare il bambino al funerale. Io rispondo che, a mio pare­re, ciò sarebbe opportuno, ma che devono valu­tare loro cosa fare. Il signore mi richiama due gior­ni dopo per dirmi che Paolo ha voluto lui andare a scuola il giorno del funerale. In realtà la decisione è della madre che, essendo molto sofferente, ri­teneva che la cerimonia funebre potesse turbare il piccolo. Io avevo suggerito al padre fin dalla prima telefonata, di informare l’educatrice della scuola materna del decesso del nonno. La maestra, par­la in classe con tutti i bambini della morte.

Quando il padre va a riprendere Paolo, alla fine della giornata delle esequie, il bambino dice: “Dobbiamo dire alla mamma di non piangere abbiamo parlato con la maestra Giulia e abbiamo scoperto che anche il suo nonno è morto e anche il cane di Federico e il vicino di casa di Andrea. Adesso loro sono tutti insieme, si fanno compa­gnia e ci aspettano per quando anche noi saremo vecchi e andremo a raggiungerli”.

Questo è uno dei tanti episodi, che han­no costellato la mia vita di psicologo dei servizi pubblici di Igiene Mentale della città di Milano.

Ed è anche uno dei motivi per cui mi sono occupata e ancora oggi mi occupo della morte. Tema molto importante nella nostra vita, particolarmente nella mia professione, che esercito da più di cinquant’anni.

È un tema non facile, molto intrigante con cui confrontarsi. Spesso facciamo “ gli struz­zi”. Sappiamo razionalmente che la morte c’è e che, prima o poi, moriremo ma di solito evitiamo di soffermarci col pensiero e facciamo “come se” non esistesse; salvo poi rimanerne travolti quando questo triste evento ci colpisce diret­tamente o indirettamente o ci viene richiesto un aiuto a livello professionale.

Ricordo un altro episodio drammatico: le educatrici di un asilo nido comunale che seguivo settimanalmente, mi informano che, due settima­ne prima era morto il papà di Federico, un bam­bino di due anni che frequentava il nido da sei mesi. Il fatto era avvenuto due weekend prima. Il padre, che era andato a trovarli al mare, guidava la moto che la compagna gli aveva regalato per il suo quarantacinquesimo compleanno e ha avu­to un incidente mortale in autostrada. La madre di Federico ha già figlie adolescenti di diciassette e vent’ anni, nate dal precedente matrimonio. In questa circostanza, le sono state molto vicine e si sono occupate del fratellino, rimanendo al mare con lui. Federico è rientrato regolarmente al nido la settimana successiva.

Piccolo particolare di cronaca: c’è già stato il funerale cui il bambino non ha partecipato; non solo, nessuno lo ha ancora informato della morte del suo papà. La madre non è riuscita a dirglielo.

Io suggerisco all’educatrice di farmi chiamare dalla signora, che lo fa nel giro di poche ore. Ri­esco a incontrarla il giorno dopo: è venerdì. Pas­siamo lungo tempo assieme; la signora sta molto male. La conforto per quello che posso, ma le comunico anche l’importanza e la necessità che lei riesca a comunicare a Federico quanto è suc­cesso. Lei mi detesta profondamente per le mie indicazioni. Le dico che, se lei non ci riuscirà nel fine settimana, la rivedrò lunedì con il bambino per parlargli insieme. La signora mi telefona all’ora dell’appuntamento per comunicarmi che, sabato mattina, è riuscita a parlare con Federico, il bam­bino le ha detto: “lo sapevo già!”.

In realtà non era riuscita, fino da allora, a in­formare il figlio perché lei stessa non ce la faceva ad accettare la morte del compagno. Non dirlo a Federico era un suo modo per negare l’accaduto.

I bambini, in effetti, sono più “ maturi” di quanto i “grandi” pensino. Sono anche molto più realistici e concreti di noi, comprendono anche quello che non diciamo. Hanno le antenne per cogliere quanto succede intorno, di là di quello che riusciamo a comunicare loro con le parole. Sembrano accettare le nostre banali spiegazioni ma se non si dice loro la verità, lo percepiscono benissimo. Come già scritto, spesso non fanno domande e apparentemente accettano passi­vamente quanto diciamo. Percepiscono che la verità è altra! Magari razionalmente non riescono a dare parola a quello che sentono, ma “sanno” che nascondiamo loro qualcosa. Questo fa loro molto male e può indurli a non fidarsi più di noi.

Le cose spiacevoli (malattie, morte, sepa­razione, ecc…) che mandano in crisi noi adul­ti, vanno comunicate ai bambini nel modo più semplice e tollerabile per loro, senza necessa­riamente entrare nei minimi particolari. Siamo noi adulti ad essere in difficoltà a parlare con i bambini, soprattutto delle cose che per noi sono difficili da elaborare.

Spesso suggerisco di raccontare delle fia­be, possibilmente inventate appositamente, per parlare di cosa è successo o sta accadendo. I protagonisti devono essere degli animali che affrontano momenti difficili, come quelli che si stanno attraversando. Le favole devono finire sempre bene, ma non in modo miracolistico. La madre che è defunta, resta morta ma rimane presente nella vita del cucciolo per proteggerlo, anche se lui non può più vederla, annusarla e toccarla.

Questo vale anche per altri fatti più o meno importanti (oltre alla morte, separazioni, malat­tie, operazioni chirurgiche, traslochi, furti…).

Il più delle volte i bambini dopo la narrazione di una favola possono commentare: “Come è successo a me!” oppure, immagazzinano il con­tenuto e sono pronti a recepire quello che verrà detto loro successivamente, sui fatti reali. Per noi adulti, inventare e raccontare su “ misura” al bambino, oppure adattare una fiaba, può esse­re un modo per rendere la realtà più tollerabile anche a noi stessi. Del resto le favole, soprat­tutto quelle classiche, da sempre raccontano e trattano i temi della vita e della morte e finiscono comunque bene, nonostante le avversità: la vita continua, deve poter continuare, anche se certi momenti possono essere molto duri, difficili!

Nella nostra società attuale, centrata sul benessere e il consumismo, sembra che i temi della sofferenza non debbano esistere. Quando capita qualcosa che irrompe nella nostra vita, ne restiamo spesso sconvolti, non ci sembra giu­sto, ci chiediamo: “Che cosa ho fatto di male? Perché a me?”. Ci diciamo che non è giusto e ci sembra che ci sia capitato qualcosa che non doveva succedere. In realtà la vita è cosi. Va vis­suta, momento per momento, accettandone la realtà, a volte spiacevole.

Quando mettiamo al mondo un figlio, nasce una creatura che è destinata a morire. I sogni del­le madri in gravidanza ce lo dicono di continuo. In realtà, se decidiamo di avere un figlio lo facciamo perché, nel profondo, crediamo nella vita e nei suoi valori. Se ci pensassimo fino in fondo magari potremmo scegliere che non ha senso di mette­re al mondo un altro essere umano. Quando de­cidiamo scientemente di concepire un figlio, nel profondo abbiamo la sensazione di continuare a vivere in eterno, attraverso di lui.

“Beati i genitori che premuoiono ai figli” dice il saggio Confucio.

Nella logica delle cose si muore da vecchi, senza soffrire. Nella realtà non è sempre cosi. Noi evitiamo di pensarci a meno che questo even­to terrificante non capiti nella nostra famiglia o alle persone a noi vicine. È come se negassimo emotivamente, a volte anche razionalmente, l’e­sistenza e la realtà della morte. Per questo moti­vo, spesso evitiamo di collegare disagi e sintomi dei bambini ai fatti che ci accadono.

Una giovane madre laureata toscana, trasfe­ritasi a Milano per lavoro, chiede di parlarmi nella sala di attesa del consultorio pediatrico portando le difficoltà che Costanza, la sua primogenita di quasi tre anni, manifestava da qualche tempo: faticava a dormire, si svegliava piangendo, era diventata capricciosa ed inappetente. La pedia­tra del consultorio riteneva che la bambina fos­se sana a livello fisico e pensava che le difficoltà comportamentali fossero la conseguenza di pro­blematiche psicologiche.

A giugno era nato un fratellino, Marco e la signora era rimasta in Toscana con i due bambini durante i mesi estivi con i propri genitori nella casa di campagna. La bambina durante quel periodo, non aveva mostrato alcun disagio. Al rientro a Mi­lano, pur essendo la madre rimasta a casa con lei e il fratellino, aveva manifestato il suo malessere in maniera crescente. Incontrerò successivamente la madre e il padre tutti i due molto preoccupati per la piccola Costanza. Un mese dopo, in un colloquio con entrambi i genitori è emerso un fat­to di cui non mi avevano ancora parlato: in luglio era morta Maria, sessantacinquenne loro vicina di casa, una specie di nonna adottiva, molto pre­sente nella vita della loro famiglia. Questa signora vedeva giornalmente Costanza, affidata alle cure della domestica filippina quando loro erano al la­voro. Maria passava molto tempo con la piccola e spesso faceva loro trovare dei manicaretti pronti. Erano così soddisfatti e felici della loro situazione da cercare un secondo figlio. Arriveranno a dire: “Se avessimo saputo che Maria sarebbe morta, non avremmo programmato Francesco”

Con Costanza non avevano mai più nomi­nato Maria e non avevano nemmeno più visto il marito della signora perché era troppo sofferente ed era doloroso per loro incontrarlo. Fino a quel momento, non erano quasi più riusciti ad affronta­re l’argomento fra loro. Ho successivamente par­lato in loro presenza con Francesco e Costanza di Maria. Ho detto al bambino che era un peccato che non avesse conosciuto la Signora che era molto brava e molto buona. Successivamente ho comunicato a Costanza che non avrebbe più rivi­sto Maria perché non c’era più, non perché fosse arrabbiata con lei: “Era proprio morta!”. I genitori erano commossi entrambi; la mamma piangeva e la bambina ascoltava in silenzio, con molta at­tenzione. Successivamente, Costanza si è “quasi magicamente acquietata”.

Tra i temi difficili di cui parlare ai bambini sicuramente uno dei più ardui da affrontare è quello del lutto e in genere dei fatti traumatici della vita. Per tutti è estremamente difficile parlare della morte con “i piccoli”. Districarsi in questo ambito tanto complesso non è facile. Il silenzio e le negazioni, nelle varie forme, regna¬no sovrani. È importante e utile dedicare uno spazio di riflessione per capire e comprendere che cosa succede “ai grandi” (genitori, psicologi, docenti, educatori …) per essere di aiuto ai bambini e alla parte “piccola” dei “grandi”.

Alba Marcoli, riprendendo alcuni concetti di Bowlby, dice che se un bambino che perde un genitore, viene accompagnato dagli adulti che lo circondano in modo paziente e rispettoso dei suoi tempi, dei sentimenti ed emozioni, è più facile che possa attraversare il suo dolore dall’inizio alla fine, uscendone non solo integro, ma spesso anche rinforzato. Il suo lutto sarà elaborato. Quando invece questo non succede, per qualsiasi motivo, ma soprattutto per il tipo di funzionamento mentale che entra nel gioco relazione adulti-bambini, è possibile che il lutto non venga elaborato e si trasformi in un trauma: non per cattiva volontà di qualcuno ma perché l’ambiente circostante non è stato in grado di aiutarne l’elaborazione. Affinché questa possa avvenire è necessario che gli adulti intorno accompagnino l’esperienza di perdita riconoscendola, dandole parole e condividendo il dolore del bambino, per non lasciarlo da solo con emozioni più grandi di lui che, difficilmente, è in grado di rappresentarsi nella mente trasformandole in pensieri. Una cosa pensabile fa meno paura, terrorizza di meno.

È importante che il tema della morte e dei distacchi venga affrontato con i bambini anche di fronte a perdite di animali. Dire che l’uccellino è volato via o il cane è scappato, che il gatto è stato rubato, quando nella realtà c’è stato un decesso, è mistificante.

I bambini possono e debbono affrontare queste esperienze che sicuramente li faranno soffrire e magari piangere (può succedere anche a noi “grandi”). Accudire l’animale amato, seppellirlo e accettare che non viva più è un modo per crescere e poter elaborare successivamente lutti più importanti.

Giovanna, una signora che ho seguito per molto tempo, quando morì il marito, affetto da un tumore, mi disse:” Meno male che lei Wally, due anni prima, mi aveva fatto seppellire la nostra gat­ta con Titti la mia bambina di otto anni. Io allora non capivo perché dovessi far soffrire la mia pic­cola. L’ho fatto perché me l’ha consigliato lei, ma non ne ero proprio convinta!”

Io ricordo che, essendo vissuta in campagna, ho avuto la fortuna di essere a contatto con la vita degli animali. Noi bambini avevamo adottato un cane bruttissimo, Leo, che amavamo moltissimo e a cui davamo di nascosto tutto il cibo possibile. Ad un certo punto è morto, forse per indigestione. Abbiamo pianto tutti, dal più piccolo che sei anni a quello di dodici. L’abbiamo sepolto sotto una vigna, scelta con cura, con una scatola di legno. Abbiamo messo una croce, fatta da noi e gli ab­biamo portato dei fiori per molto tempo.

A distanza di settant’ anni me lo ricordo an­cora. Di recente sono stata al mio paese natale e ho scoperto che alcuni dei miei compagni di gioco di allora si ricordavano anche loro di Leo.

I riti che accompagnano la morte, cerimo­nie varie a seconda delle religioni, e usi e costu­mi, servono ad aiutare a separarsi dalla persona che è mancata. Partecipare aiuta ad accettare la realtà. Concita De Gregorio, in un suo libro, dice che lei può non andare alle cerimonie nu­ziali, ma non si perde un solo funerale. In effetti ha ragione!

I funerali sono occasioni molto più impor­tanti, ci si rivede con le persone del nostro più o meno lontano passato: “amarcord” con i co­noscenti che ritrovi e cui, forse, non ti rivedrai mai più. Colleghi le tue esperienze passate con il presente e con la consapevolezza della realtà della morte, il più delle volte, in modo non solo triste. Spesso bere o mangiare insieme conclu­de questi incontri che possono essere molto in­tensi e perché no? “Piacevoli”.

Ricordo un pranzo dopo il funerale della mia ultima zia materna. Ho sentito che non potevo non partecipare. Ero in vacanza in Puglia, ho attraver­sato tutta l’Italia, sono andata dal parrucchiere e mi sono messa il vestito più carino (mia madre mi aveva sempre insegnano che ai funerali si doveva andare in ordine!).

Ho ritrovato i miei cugini e i loro amici con cui avevo giocato da piccola, e che, in altre cir­costanze,non avrei mai riconosciuto. È stato un pranzo “speciale”: ce lo ricordiamo tutti. Abbiamo anche pianto ma soprattutto riso e scherzato, ri­cordando le cose belle che si erano fatte insieme.

IL LUTTO E GLI OPERATORI SANITARI E SOCIALI

Le difficoltà ad accettare la fatalità della morte riguarda anche il personale sanitario, so­ciale ed educativo (medici, psicologi, insegnan­ti, educatori). Cominciamo con i medici e il per­sonale sanitario degli ospedale. Nel bellissimo libro di Eric Schmitt “Oscar e la dama in rosa” viene espresso molto bene quello che il pazien­te prova nell’affrontare l’ultima parte della vita. Nel testo Oscar è un bambino di circa otto anni, che si chiede cosa gli stia succedendo, dice che nessuno risponde alle sue domande. Tutti si imbarazzano e cambiano discorso.

In effetti per rispondere a chi ti chiede: “Come sto? E che cosa mi stia succedendo?” può essere molto facile se la situazione è sotto controllo e con una prospettiva di guarigione, non lo è altrettanto se invece la prognosi è in­fausta. Di solito l’interrogato resta nel vago, si arrampica sugli specchi e il più delle volte si cambia discorso. Questo succede normalmen­te con i bambini.

Schmitt dice, attraverso il bambino, che un malato che non è destinato a guarire delude, manda in crisi, mina la tua onnipotenza, ti fa sentire colpevole e non capace.

Ad un incontro con operatori sanitari molto competenti (erano medici e psicologi), una ema­tologa ha parlato della sua esperienza con una paziente che stava seguendo da otto anni e che era morta quando lei era partita per le vacanze. Si sapeva che la signora non poteva guarire per la sua grave malattia ma nei giorni immediatamente precedenti alla partenza della curante, la malata era un po’ migliorata. La sua morte aveva profondamente toccato la dottoressa. Sapeva che sa­rebbe successo ma l’evento l’aveva colpita molto profondamente. Ha detto: ”Meno male che ero in vacanza, non sarei stata capace di occuparmi di altri ammalati. Si sentiva colpevole di “aver creato tre orfani”. La signora deceduta aveva infatti tre figli, l’ultimo di otto anni era stato concepito subito prima della scoperta della malattia. C’erano sta­te delle perplessità sul poter continuare la gravi­danza. La dottoressa aveva sostenuto il desiderio della paziente di mettere al mondo un altro figlio.

Si è lavorato nel gruppo sul fatto che era sta­ta la vita a creare tre orfani e che lei, la curante, aveva solo aiutato la madre a continuar a vivere al meglio possibile per altri otto anni. La dottoressa si era molto affezionata alla paziente e diceva che soffriva moltissimo e la sognava tutte le notti. La sera prima dell’incontro di gruppo dice che il so­gno era cambiato: c’era sempre la sua paziente come oggetto, ma invece di vederla ne parlava con sua madre!

Era evidente che stava uscendo della fase acuta dell’elaborazione del lutto che, come vedia­mo, colpisce anche i curanti.

Da anni tengo incontri mensili con medici e psicologi che lavorano nello stesso reparto, proprio per elaborare insieme anche le emozio­ni e i sentimenti connessi alla cura. Per i primi sei anni il gruppo era esclusivamente femminile. Qualche volta si affacciava un collega medico che poi spariva velocemente. Solo negli ultimi mesi si comincia ad avere qualche uomo in più.

La “Cura” per sua connotazione anche sto­rica è legata al femminile. Da sempre, in tutte le culture, sono le donne ad occuparsi dei bam­bini, dei vecchi, dei sofferenti. Solo di recente i padri si sono affacciati al mondo dell’infanzia. Attualmente si occupano in genere di più dei fi­gli, inizialmente soprattutto per motivi economi­ci. In questo momento storico molti padri hanno scoperto il piacere e la fatica di accudire i propri figli, anche se spesso rischiano di diventare “dei fratelloni”.

Tornando alla cura, è la parte femminile quella affettiva, che hanno anche gli uomini e subentra quando si cura non solo a livello tec­nico e meccanico. Si può accudire fisicamente un bambino in modo igienico e distaccato, ma di solito, entra in gioco la parte affettiva e rela­zionale. La stessa cosa vale nell’accudimento di una persona anziana o di un malato. È per questo che è molto importante che anche gli infermieri vengano supportati (andrebbe fatto anche con le baby-sitter e le badanti).

Svolgere una professione di cura non vuol dire essere sempre consapevoli e competenti al livello emotivo sui fatti della vita. Esercitare la professione di medico, specialmente in alcuni settori, espone al rischio di conflitti interni e mo­menti di angoscia destabilizzante.

Ricordo una bravissima anziana pediatra, pri­maria di un reparto di prematuri ad alto rischio, che mi confidava come le giovani colleghe femmine difficilmente restavano nel reparto più di sei mesi. I bambini quando non morivano, sopravvi­vevano spesso defedati. I colleghi maschi regge­vano un po’ di più, in genere due anni e con lei erano rimasti stabili soltanto due aiuti uomini.

E GLI PSICOLOGI?

Non è che il problema non tocchi gli psico­logi anche quando sono psicoterapeuti.

Da molti anni ho realizzato come sia difficile trovare qualcuno in ambito privato che prenda in carico pazienti con grave patologie o con ma­lattie incurabili. Lo fanno di solito solo gli opera­tori che lavorano presso istituzioni preposte.

Mi è capitato a lezione, in una scuola di psi­coterapia, che un allievo, dipendente da un ASL dicesse: ”Meno male che non è capitato a me”. Si trattava di un delitto (una signora aveva ucciso un’amica, madre di una compagna di scuola della figlia e l’ASL aveva chiesto che uno psicologo intervenisse sul caso). Naturalmente ho redarguito il collega. Successivamente ho discusso a lun­go con gli allievi sulla situazione. Tutti gli psicologi che lavorano con le istituzione dovrebbero essere pronti ad intervenire, supportandosi a vicenda e, se serve, facendosi sostenere da qualcuno di più esperto, nel caso non si sentissero competenti.

Non si può fare lo struzzo di fronte ai fatti della vita soprattutto se si svolgono funzioni so­ciali o di cura.

Durante il periodo estivo, è deceduta una collega di cinquant’anni, madre di tre figli. Era stata rico­verata per una colica, aveva un tumore in fase progredita, nessuno se ne era accorto ed morta cinque giorni dopo. La cosa ha sconvolto la fa­miglia, gli amici e i colleghi. Una di queste, molto amica della defunta, con cui condivideva lo stu­dio, mi telefona sconvolta annunciando il fatto. Io la supporto nel limite del possibile. Mi sono informata sulla famiglia e sui figli della defunta. Par­lo successivamente con un altro collega, meno turbato, che si era messa in contatto con me per avere dei suggerimenti su come intervenire con i bambini e su cosa leggere loro: di solito in questi casi suggerisco “Mattia e il nonno” di Roberto Piumini, che va letto o raccontato ai bambini (lo riten­go un buon testo per affrontare in modo sereno il tema della morte anche per noi stessi).

Tornando alla giovane collega, sconvolta ed angosciata per la scomparsa dell’amica, il che è più che comprensibile, scoprirò in seguito che in quei giorni aveva incontrato per caso la giovane paziente quindicenne della sua collega defunta e l’aveva abbracciata singhiozzando e informandola della morte della sua psicoterapeuta. La giovane, molto “più sana” della mia collega, ha telefonato al responsabile del centro dicendogli di trovarle un altro terapeuta ma segnalando che, a suo avviso, la dottoressa, che l’aveva informata stava molto male e che era urgente darle una mano!

È evidente che noi psicologi non possiamo e non dobbiamo riversare sugli altri le nostre difficoltà. Quando noi stessi siamo in crisi o in difficoltà, ci capita come a tutti, dobbiamo pren­derci del tempo fisico e mentale, nel limite del possibile, farci aiutare se serve e solo succes­sivamente essere disponibili ad occuparci degli altri che ci chiedono aiuto.

Ricordo una donna molto provata della vita (aveva avuto una figlia di cinque anni abusata dal marito, padre della bambina) che mi era stata inviata al Servizio del Tribunale dei minori. La si­gnora mi dice:” Dottoressa come sta? Guardi che noi abbiamo bisogno che lei stia bene perché ci possa aiutare”.

Era un momento molto difficile della mia vita, io ero molto provata e lei lo aveva colto.

Tutti possono avere momenti connotati da perdite, lutti, malattie che possono mettere a dura prova. L’importante è esserne consapevoli e cercare di non proiettare sugli altri i nostri ma­lesseri. Il lavoro su di sé è essenziale per poter essere abbastanza sereni e autentici nello stare con gli altri. Non a caso viene richiesta per il no­stro lavoro un’ analisi personale, che può essere più o meno lunga, ma che deve continuare tutta la vita, dentro di sé.

GLI EDUCATORI E IL LUTTO

Se si svolgono i lavori di tipo educativo (partendo dal nido fino all’università), ci si tro­verà prima o poi ad affrontare il tema della morte di genitori o parenti propri o degli allievi. Più i bambini sono piccoli (nido e scuola dell’infanzia) più è facile che l’educatore si metta in discus­sione e chieda aiuto su come intervenire e cosa dire ai bambini cui è toccata la perdita di un fa­miliare. Le educatrice sono più vicine ai piccoli e alle loro famiglie e si sentono parte in causa. Non ho mai avuto problemi a dare un supporto direttamente o indirettamente, di solito vengo compresa molto velocemente emotivamente e non solo razionalmente.

In un recente passato ho tenuto dei grup­pi con educatrici di tale fasce di età e parlare con loro della vita e della morte è stato estrema­mente facile e soddisfacente con buoni risvolti nell’ambiente di lavoro. Nei nidi e nelle scuole dell’infanzia si è creato spesso una “cultura” in tal senso che viene trasmessa naturalmente an­che alle educatrici che non hanno partecipato direttamente alla formazione.

È una cosa molto bella e gratificante. Senti che sei utile a qualcosa. Con gli insegnanti dalla scuola primaria e delle superiori è sempre più difficile portare contributi in questo campo.

Nell’ultimo anno di frequenza della scuola materna, al mio nipotino di cinque anni, nell’ulti­mo giorno di scuola, è successo che è morta la madre del suo compagno di classe. Le educatrici e alcune mamme hanno partecipato al funerale. Successivamente, nel giardino di una di loro, le due insegnanti hanno invitato per una merenda tutti gli alunni, compreso il bambino rimasto or­fano, che non avrebbero più rivisto a settembre. Hanno fatto giocare i bambini, hanno parlato con loro insieme a Federico della morte della sua mamma, assaporando le torte confezionate da loro.

A settembre, il primo giorno della scuola ele­mentare, lo stesso nipote si è trovato in classe con Federico. Le maestre al termine del primo giorno di scuola dicono ai bambini di far firmare una comunicazione alla propria mamma “Chi sa mai perché solo alla madre?”.

Mio nipote dice: “La mamma di Federico è morta”. Le maestre successivamente lo sgride­ranno e diranno a tutta la classe che da ora in avanti non si dovrà più dire la parola mamma in presenza di Federico e successivamente la festa della mamma non si farà!

Sollecitata da una giovane collega, madre di un alunno di quinta, una delle due maestre mi telefono per avere un aiuto: la rappresentante di classe ha un tumore in fase terminale e mi chie­de se c’è qualcosa da fare o da dire ai bambini. Io suggerisco come sempre “Mattia e il nonno”, consiglio loro di leggere il libro in classe, infor­mando i genitori. Quando la signora muore tutti gli alunni della classe parteciperanno al funerale. Ogni bambino ha scritto una lettera al compagno sfortunato. Scoprirò però che, anche qui, verrà annullata la festa della mamma per non turbare il bambino, creando così problemi a tutta la classe.

Anche quando si riesce a parlare della mor­te di qualcuno con i bambini, successivamente sembra quasi impossibile poter riprendere il di­scorso.

Ricordo un sacerdote mio amico che, quan­do gli ho chiesto notizie di due sorelline rimaste orfane di madre due anni prima. (Volevo inserirle gratuitamente in un gruppo di elaborazione del lutto che stavo organizzando). Mi ha risposto: “ Sono tranquille! Non ne parlano mai!”.

Ho trovato spesso, che molte famiglie non parlano dei lutti dei propri cari e di conoscenti, morti in un passato più meno lontano. Non se ne parla più con i bambini, avendo paura che possano soffrirne. È esattamente il contrario. I bambini sono “resilienti” e hanno la capacità di superare momenti difficili spesso più di noi adulti. Hanno però bisogno di poter dare parola a quello che sentono e lo possono fare solo se avvertono che noi adulti siamo disponibili.

Ho avuto delle discussioni accese con per­sone “molto” religiose che di fronte al bambino che piangeva perché aveva nostalgia del papà, dicevano che il loro genitore era stato molto bravo e che Dio lo aveva voluto con sé e che era felice e stava bene. Spesso poi il bambino viene portato a dire una preghierina davanti alla foto del defun­to, questo comportamento è assolutamente de­leterio e controproducente. Il bambino, trattato in questo modo, potrà solo detestare un Dio che gli ha portato via i genitori e si sentirà colpevole dei suoi sentimenti.

Ritengo che la risposta più adeguata alla sofferenza del bambino sia quella di permetter­gli di esprimere il suo dolore, unendoci al suo, magari piangendo anche insieme, per poi con­solarlo e consolarci, abbracciandolo e mangian­do insieme un bel gelato.

CONCLUSIONI

È per questo motivo che con un gruppo di colleghi da sette anni abbiamo istituito il proget­to: “Ricordati di vivere: riflessioni sul tema della morte” (vedasi allegato). Al suo interno vengono programmati e condotti gruppi di bambini dai sei ai dodici anni, rimasti orfani di padre o di ma­dre. In contemporanea si tengono gruppi paral­leli con i loro genitori ancora viventi.

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Schmitt E., Oscar e la dama in rosa, Roma, Edizioni e/o, 2015.

Winnicott D.W., I bambini e le loro madri, Mi­lano, Cortina, 1987.

L’articolo è tratto da INTERVENTI EDUCATIVI – Conversazioni sulla cura © Rivista di educazione e cura. Pubblicazione trimestrale Distribuita in abbonamento tramite internet. Viene qui pubblicato per gentile concessione dell’autrice e dell’Editore.

EDITORE
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IMMAGINE DI COPERTINA:
La consistenza delle ferite,
di Agostino Ricci

COMITATO DI CONSULENZA SCIENTIFICA
Rosanna Abbatinali, Sant’Angelo Lodigiano
Biagio Belmonte, Riccione Barbara Bernardi, Riccione
Tiziana Bonfili, Roma
Ilaria Bosi, Argenta
Valentina Caggio, Faenza
Luca Chicco, Trieste
Anna Chiesa, Milano
Ombretta Cortesi, Villanova di Bagnacavallo
Carmen Dambra, Lainate
Massimiliano Fabbri, Cotignola
Elena Pasetti, Rezzato
Ivana Pinardi, Parma
Massimo Rabboni, Bergamo
Ester Sabetta, Montefiore Conca
Paola Tosi, Lodi
Simona Zandonà, Milano
IN REDAZIONE:
Rosanna Abbatinali

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Wally è il mio nome di battesimo che viene spesso usato anche in contesto professionale perché qualcuno pensa che sia un cognome ed è comunque il nome che spesso bambini e genitori usano per rivolgersi a me. La cosa non mi ha mai creato problemi.

S.I.M.E.E: (Servizio di Igiene Mentale dell’Età Evolutiva)

Negli anni Settanta il comune di Milano ha istituito tali servizi in modo capillare, per ognuna delle venti zone di Milano. Ogni servizio era composto da équipe interdisciplinare con psicologi, europsichiatri, tecnici della riabilitazione (fisioterapisti-ortofonisti-psicomotricisti). Gli operatori erano in un numero variabili in proporzione alla densità della zona di appartenenza. Tutte le venti zone in cui la città era suddivisa aveva il proprio servizio. C’era un coordinamento centrale per i compiti istituzionali. Il motivo iniziale per cui erano stati istituiti era stato lo smantellamento delle scuole speciali con il conseguente inserimento dei bambini handicappati nelle normali strutture scolastiche (dall’asilo nido alle scuole primarie e secondarie). Nella città sono rimasti solo alcuni presidi centralizzati per situazioni di handicap gravissimi in cui l’inserimento non era possibile. Altro compito dei servizi è diventato poi la prevenzione, che riguardava l’individuo e gli ambienti di vita. Noi operatori abbiamo lavorato in modo capillare in collaborazione con le strutture educative per migliorarle e modificarle. In particolare l’attenzione è stata rivolta agli asilo nido che il comune di Milano aveva” ereditato” dall’ ONMI (Opera Nazionale Maternità Infanzia instituita per motivi sanitari e assistenziali dal fascismo e sciolta negli anni Settanta). Gli operatori dei S.I.M.E.E. hanno svolto un lavoro molto prezioso e incisivo in tali servizi che si sono trasformati da Assistenza in Educazione, grazie anche alla sensibilità di assessori come Carlo Cuomo che hanno sostenuto e supportato le indicazioni degli specialisti.

I Consultori Pediatrici sono stati istituiti dal Comune di Milano, in epoca poco anteriore a S.I.M.E.E. Erano distribuiti in tutta la città. Ogni asilo nido ne aveva uno con una Pediatra e un’Assistente Sanitaria, su modello ONMI. Ogni zona ne aveva un numero variabile in base alla densità della popolazione, spesso fungevano anche da Centri Vaccinali, al di fuori dei nidi. Il personale era sotto la direzione e un coordinamento centrale, come gli operatori della Medicina Scolastica e dei S.I.M.E.E. Esisteva un’ottima collaborazione fra gli operatori dei vari servizi, che interagivano attivamente sia sulle strutture sia sui singoli pazienti. In particolare il coordinamento fra il personale sanitario degli asilo nido e dei S.I.M.E.E era molto intenso. Io personalmente ero presente una volta a settimana in tutti i consultori della mia zona. Collaboravo attivamente con il pediatra e l’assistente sanitario, organizzando con loro incontri a tema rivolti ai genitori. Nell'orario della mia presenza, programmata a priori, la pediatra fissava gli appuntamenti con i casi problematici, in modo che fosse più agevole il contatto diretto e la possibilità degli interventi specialistici.